Sommario e contenuto dell'opera:
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All'Ill.mo
et Eccel. Signore, il Signor Iacomo Boncompagno, Duca di Sora, et
Governator Generale di Santa Chiesa [La dedicatoria è scritta da Vincenzo
Ruscelli, nipote di Girolamo, che ha curato l'edizione dell'opera dopo la
morte dell'autore. Sicuramente fra le opere scritte da Girolamo Ruscelli i Commentarii della lingua italiana è
stata quella più stimata dallo stesso autore e più attesa dai lettori; egli
tuttavia non riuscì a darla alle stampe prima della sua morte e perciò
l'opera ‘rimase se non imperfetta, almeno priva di quello splendore, et di
quella estrema mano, che si suol mettere in tutte le cose, le quali hanno a
comparire nel cospetto altrui’. L'opera, poiché in un certo senso
incompleta, come si capisce anche dagli accenni che qua e là l'autore
faceva a possibili approfondimenti, potrebbe aver bisogno di appoggio e
sostegno, che, il curatore si dice certo, Iacomo Boncompagno non le farà
mancare]. Tavola de'
Capitoli; Indice generale; Tavola delle cose piu notabili [Indice
analitico]. Libro
Primo (pp. 1-71) [Nel primo capitolo si afferma
che la favella umana, di cui anche la scrittura è una manifestazione,
contraddistingue l'uomo dagli altri animali, poiché è segno della sua
razionalità. La nobiltà della parola è poi confermata dalle Sacre Scritture
(cap. secondo): in esse è più volte ripetuto che nella Creazione Dio fa
precedere la parola al fatto, che Iddio e poi il Cristo sono la parola, che
prima azione dell'uomo fu il parlare, che punizione divina per la superbia
degli uomini fu la divisione delle lingue e segno dell'attenzione divina fu
il dono della capacità di parlare in tutte le lingue fatto agli Apostoli.
Prova, poi, che ‘la favella sia più particolar operatione dell'anima’, è il
fatto che grandi emozioni possano privar l'uomo della parola. Nel terzo
capitolo si sostiene che lingua usata da Iddio per rivolgersi agli Angeli e
con la quale questi ultimi cantano le loro lodi a Dio è la lingua Ebrea,
considerata lingua santa. Nel quarto capitolo si dà la definizione di voce:
‘quel carro, et quello istrumento, che porta la forma delle parole
all'orecchie, et indi all'animo et all'intelletto nostro’ e si ragiona di
‘che natura, et di che qualità ella sia’; nel quinto capitolo si dimostra che la ‘maggiore efficacia’ della voce umana
rispetto alle altre voci animali è dovuta alla particolarità della materia
di cui essa si compone. ‘Della forma della voce’ si parla nel capitolo
settimo: elementi fondamentali della forma della voce sono l'armonia del
suono (‘quando ella per certi numeri, et misure è talmente disposta, che
move l'udito in questo, ò in quell'altro modo à noia, ò à diletto’) e il
significato delle parole.
Nel capitolo conclusivo del primo libro si ragiona
dell'origine e della dignità della lingua italiana: la lingua latina fu
adottata da tutti i popoli dell'Italia che pure avevano una lingua propria,
lo stesso accadde in Francia, in Germania e in Spagna e in altre province
dell'Impero Romano. Le invasioni barbariche furono causa della corruzione
della lingua latina al punto che nacque una lingua diversa da quella latina
e da quelle degli invasori. Col passar del tempo questa lingua acquistò
dignità e i ‘belli ingegni’ cominciarono a usarla nei loro scritti in prosa
e in poesia. È questa la
versione dell'origine della lingua italiana ripresa dalla riflessione
quattrocentesca e data anche dal Bembo e da altri scrittori. Petrarca e
Boccaccio furono sicuramente artefici dello splendore e della dignità di
questa lingua, tanto ‘che parve che non lasciassero speranza di scriver
bene, se non à chi gl'imitasse’. Il Bembo fu tra i primi grammatici di
questa lingua; l'autore stesso ne ha trattato nei Tre Discorsi al
Dolce, ma intende più compiutamente trattare la materia, riunendo tutte le
regole che sono state scritte da altri, integrandole con proprie
osservazioni e destinandole a coloro che vogliono ‘regolatamente’ scrivere
e parlare. Intento dell'autore è quello di indurre molti a studiare questa
lingua, che, ormai ricca e bella quanto quelle dalle quali deriva e dalle
quali ‘ha preso il suo accrescimento’, ha avuto grandi poeti (Ariosto,
Petrarca, Dante) e scrittori
(Guicciardini, Cavalcanti e altri)]. Libro Secondo (pp.
72-374) [Le parti del discorso: la lingua precede le sue leggi e dunque
più che di regole si dovrebbe parlare di osservazioni. Se la nostra fosse
lingua che per la prima volta si riducesse in regole e non derivata da
nessun'altra, la ragione indurrebbe a considerare solo tre parti del
discorso (‘Che le cose espresse dall'intelletto, et espresse dalla favella,
sono solamente di tre sorti principali, et non più; cioè, ch'elle sono ò
cose, ò operationi, ò non sono nè l'una, nè l'altra di dette due’). Secondo
lo schema della grammatica latina, però, mantenuto anche dal Bembo, le
parti del discorso considerate proprie della nostra lingua sono otto: nome,
verbo, participio, pronome, ‘prepositione’, avverbio, ‘congiuntione’ e
‘intergettione’. Le ultime quattro sono invariabili (secondo i latini
‘indeclinabili’), le prime quattro invece sono variabili (‘declinabili’).
La variazione è responsabile della maggior parte degli errori commessi da
coloro che non conoscono bene la lingua toscana. Il nome: ‘è parte
declinabile del parlamento; la qual sempre dinota alcuna cosa animata, ò senz'anima’.
Quattro sono i suoi ‘accidenti’: il significato, il genere (con il quale va
compreso l'articolo), il numero e, per non porre troppa distanza dal
latino, il caso o ‘fine’. L'autore non crede che sia necessario includere
fra gli ‘accidenti’ del nome, come invece hanno fatto altri grammatici
prima di lui, la ‘spetie’ e la ‘figura’. Tre sono i principali generi del
nome (‘del maschio’, ‘della femina’ e ‘neutro’), ma se ne possono
individuare anche altri (il ‘comune’: ‘huomo’, l' ‘incerto’: ‘fine’, l'
‘universale’: ‘felice’ e il ‘promiscuo’: ‘aquila’). Il neutro esiste
nonostante alcuni, compreso il Bembo, ne abbiano negato l'esistenza. Il
genere dei nomi propri è riconoscibile di per sé, mentre quello dei nomi
comuni è segnalato per lo più dagli articoli (‘il’, ‘lo’, ‘la’, ‘i’, ‘li’,
‘gli’, ‘le’ nel nominativo e nell'accusativo; ‘del’, ‘della’, ‘de la’, ‘dei’, ‘de'‘, ‘de gli’, ‘delle’, ‘de
le’, nel genitivo; ‘al’, ‘alla’, ‘à la’, ‘a i’, ‘a'‘,
‘à gli’, ‘alle’, ‘à le’, nel
dativo; ‘dal’, ‘dalla’, ‘da la’, ‘da i’, ‘da'‘, ‘dagli’, ‘dalle’, ‘da le’,
nell'ablativo). Degli articoli vengono date regole di formazione e d'uso in
due ampi capitoli. I nomi possono essere singolari (o ‘del numero d'un
solo’) o plurali: terminano sempre per vocale, tranne nei casi in cui
nell'ultima sillaba compare una consonante liquida e perdono talvolta la
vocale finale, tanto nel singolare che nel plurale. Le distinzioni che
riguardano la classe dei nomi, oltre a quella per genere, sono quelle fra
nomi propri (‘che si convengono a un solo’) e nomi ‘non propri’ o
‘impropri’ (‘quelli communi à molti’) e fra nomi sostantivi (‘che si
reggono, ò stanno da se stessi senza bisogno d'altro nome’) e aggettivi
(‘quelli, che per se stessi non istanno già mai, ma convien sempre che
s'appoggino, ò aggiungano ad un nome sostantivo’). Pronomi: sono quelle
voci che ‘variandosi per Generi, Numeri, et Casi, come i nomi, comprendono
sempre sotto di se qualche nome, come Io, tu, Egli, colui, Noi, Voi, Essi,
et gli altri tali’. Il pronome personale ‘lui’ è la forma per i casi obliqui di ‘egli’ (talvolta
‘elli’), ‘ei’, ‘e' ‘; ‘lei’ è la forma con cui ‘si varia’ ‘ella’ nei casi
obliqui; ‘loro’ si usa nei casi obliqui di ‘elli’ (in poesia, mai in
prosa), ‘ei’, ‘eglino’ (solo in prosa e raramente), ‘essi’, ‘elle’ (usato
talvolta anche nel quarto caso), ‘elleno’. Si tratta poi dei pronomi
‘cotesto’, ‘questo’, dei pronomi relativi, interrogativi (‘che servon per
domandare’), indefiniti. La trattazione dei pronomi è intercalata da alcuni
capitoli sui nomi eterocliti (‘et questi sono quei nomi, che nel torcersi,
ò variarsi vanno diversi da gli altri nella schiera loro, nel secondo
numero, cioè, che essendo il loro numero singolare di natura che debbia
fare il plurale in un modo, lo faccia in un'altro’), sulle declinazioni e
sul troncamento di nomi e pronomi
nella lingua italiana. I capitoli conclusivi della sezione riservata ai
pronomi sono dedicati agli articoli che svolgono funzioni di pronome
all'interno di frase (‘il’, ‘lo’, ‘li’, ‘gli’, ‘la’, ‘le’), sostituendo di
fatto le forme ‘quello’, ‘quella’, ‘lui’, ‘lei’, ‘esso’, ‘essa’, e alle
particelle pronominali. Verbi: ad essi è dedicata la parte più sostanziosa del
secondo libro. Il verbo è considerato la principale parte del discorso: un
verbo solo e un nome fanno ‘parlamento intero, et finito’. Anzi il verbo da
solo, unico tra le parti del discorso, fa da solo ‘parlamento’. Del verbo
sono studiate sette categorie: la ‘significatione’ (che si apprende
parlando e ascoltando la nostra lingua o che si può trovare nel vocabolario
generale), il ‘genere’, la ‘variatione’, i modi, i tempi, le persone, il
numero. I modi
verbali, secondo la terminologia latina volgarizzata, sono:
‘dimostrativo’, ‘comandativo’ (anche se poi è da preferire per consuetudine
il nome di ‘imperativo’), ‘desiderativo’, ‘soggiuntivo’, ‘infinitivo’ (o
‘infinito’). Il ‘desiderativo’ è un modo superfluo, perché le sue voci sono
nel ‘soggiuntivo’; solo per comodità viene mantenuto l'‘imperativo’. I
tempi verbali sono la misura del movimento. Sono il presente, l'imperfetto,
il passato (o ‘passato et finito’, o ‘preterito’, o ‘preterito perfetto’),
il futuro (o ‘avenire’). I generi sono l'attivo e il passivo. I verbi
assoluti hanno solo voce attiva. Impersonali sono i verbi che non hanno
‘persona operante’, e possono essere tali di per sé oppure posti
‘impersonalmente’. Il numero dei verbi varia a seconda delle persone che
fanno le azioni, che possono essere una o più di una e di tre tipi (prima,
seconda e terza). Le ‘congiogationi’ o ‘maniere’ (per usare la terminologia
bembiana) dei verbi sono quattro e si riconoscono dalla penultima sillaba
dell'infinito. I tempi hanno una variazione semplice e una composta. Un
capitolo è dedicato alla regole generali relative alla formazione alla
coniugazione verbale; seguono i capitoli relativi all'esemplificazione
della variazione per ciascuna ‘maniera’. La prima persona dell'imperfetto
indicativo termina in ‘-a’, e non come alcuni moderni usano, in ‘-o’, forma
mai usata dai buoni autori. Nei capitoli successivi vengono esposte le
regole relative alla forma passiva, ai verbi ‘sono’, ‘posso’, ‘debbo’,
‘ire’, ai diversi tipi di tempo passato, ai verbi impersonali. I participi: nella lingua
italiana i participi sono di due tipi, attivo e passivo; variano come i
nomi; possono essere usati ambedue in una costruzione particolare, quella
assoluta, nella quale significano tempo. Il gerundio è usato spesso in
alternanza col participio attivo, dal quale si forma, mutando l'ultima
sillaba in ‘-do’. Pur ricorrendo praticamente nelle stesse costruzioni
participio e gerundio non sono propriamente sinonimi: il primo esprime
l'azione in potenza, il secondo l'azione in atto. Gli antichi usavano il
gerundio in costruzioni con le preposizioni ‘con’, ‘in’; esistono anche
costruzioni delle quali né il Bembo né altri hanno parlato: il gerundio con
le voci dei verbi ‘andare’, ‘stare’, ‘venire’. L'avverbio: è l'elemento
‘quasi vicino ò presso al verbo, et questo perche quasi sempre par che la
natura di queste voci in ciascuna lingua sia di mettersi vicine à i verbi,
innanti o poi’; spesso tuttavia gli avverbi occorrono lontani dal verbo,
soprattutto in poesia. Essi sono semplici (‘hieri’, ‘quì’) o derivati
(‘altamente’, ‘similmente’). Ci sono poi ‘forme di dir’ usate
avverbialmente (‘in brieve’, ‘poco stante’). La preposizione: ‘si mette sempr'avanti al nome’.
Talune voci della nostra lingua possono essere avverbi e preposizioni
(‘appresso’, ‘innanzi’). ‘Intergettione’: Bembo non la considera una parte del discorso,
modificando quindi lo schema latino della classificazione, che invece
l'aveva sottratta alla classe degli avverbi. Le interiezioni ‘sono segni
d'alcune ò affettioni, ò passioni de gli animi nostri, come del dolore,
della maraviglia, del riso, della compassione, et sì fatte’. Sono ‘Ah, ah
ah, ahi, deh, oh, oi, oime, et oisè’. La congiunzione: precede il verbo, il nome o il
pronome. Viene descritto in particolare l'uso di ‘conciosiacosache’,
‘accioche’, ‘et’]; Libro
Terzo (pp. 375-456) [L'autore
abbandona ogni controversia o disputa, per mettere ‘come in catena
continuata tutta la Grammatica, et tutte le regole principali di tutte le
parti di questa lingua’. Sono indicati anche i destinatari principali di
questo libro: ‘Et finalmente questo Terzo Libro per la sua brevità, et per
la sua chiarezza si è fatto perche serva alle Donne, à i fanciulli, ò
gioveni, alle nationi straniere, et à tutti quelli che non sanno lettere
Latine’. Potrà essere utile anche a coloro che conoscono in parte la
lingua, come sintesi di tutto quello che sanno o intendono ritrovare, e a
coloro che vorranno memorizzare precetti e regole senza rileggere per
intero tutta la trattazione]. Libro Quarto (pp. 457-508) [L'ornamento è
‘fine’ e ‘suggello’ della grammatica e fondamento della retorica. Esso
riguarda: la correttezza grammaticale; la scelta e la ricchezza lessicale;
la varietà delle costruzioni; l'uso di esempi, comparazioni, proverbi,
trasposizioni; l'accuratezza dello stile, che deve essere adeguato
all'argomento trattato. Nei primi capitoli sono elencati i ‘vitij’ delle
parole (‘replicatione’ della stessa parola o sillaba; ‘improprietà’ della
parola; ‘sconvenevolezza’ e ‘tristo suono’) e delle ‘sentenze’(‘essere
improprie’, ‘esser imperfette’, ‘esser lunghe’, ‘esser confuse’, ‘esser
sconvenevoli’, ‘esser fuor di luogo’ ‘ò fuor di proposito, ociose, ò
replicate’). I capitoli successivi sono dedicati all'ortografia in generale
(‘modo di correttamente, regolatamente et ancora ornatamente scrivere,
quello, che l'intelletto concepisce e la lingua pronuntia’), al rapporto
dell'ortografia italiana con quella greca e quella latina, ad alcuni
fenomeni ortografici (l'uso delle lettere ‘x’ e ‘y’), alle proposte di
riforma ortografica (del Trissino e del Tolomei), ai dittonghi]. Libro Quinto (pp. 509-525)
[Il
quinto libro è costituito da un unico capitolo, in cui vengono elencati
sistematicamente gli errori più comuni (‘quelle cose, che et nelle voci et
nella scrittura sogliono mal'usarsi’) commessi da toscani e non toscani
(‘coloro, i quali ò sono Toscani di natione, ò vi hanno fatto studio, et
comunque sia si credono, ò almen procurano di voler parlare et scrivere
perfettamente, et non lo fanno, ò per natural vitio della favella delle
loro patrie, ò per non vi haver fatto tanto studio, che sia à bastanza, ò
ancora per havere seguiti Auttori et maestri che n'hanno scritto
confusamente, et (che più importa) imperfettamente et in molte cose contra
le vere ragioni et regole, et contra l'auttorità sicurissima de' buoni
autori’)]. Libro Sesto
(pp. 526-551) [Vengono esposte le regole essenziali
della retorica. La perfezione della lingua viene realizzata attraverso il
rispetto delle regole, la chiarezza e l'ornamento. La chiarezza si pone
alla fine dello scrivere secondo le regole e segna l'inizio per il poter
scrivere ornatamente. L'ornamento, che può essere proprio di tutte le
lingue e richiede regole comuni, consiste di tre operazioni: ‘togliere’ (o
‘diminuire’), ‘aggiungere’, ‘ordinare’ (o ‘disporre’). Prima e principale
parte di esso è la ‘convenevolezza’. L'ornamento può essere nelle ‘voci
sole’ (‘sinonime’, ‘amplificationi’, ‘epiteti’, ‘antiteti’, ‘metafore’) o
nelle ‘voci congiunte insieme’ (come ad esempio le ‘circunlocutioni ò giri
et circuiti di parole per formare un significato’). L'ornamento, poi,
riguarda anche le apostrofi, le interrogazioni e le esclamazioni. Tutte le
manifestazioni del parlare ornato sono sostenute dalla composizione,
disposizione e collocazione delle parole, operazioni che riguardano ciò che
viene comunemente definito ‘stile’ (‘il qual consiste nella positura delle
voci, et nella qualità del suono, et ne i numeri de' tempi loro’). La
definizione, seguita da una spiegazione dettagliata, del concetto di ornamento chiude il libro: ‘Ornamento in
qual si voglia cosa cosi corporea, come senza corpo, s'ha da dir che sia
tutto quello che le si aggiunge non per bisogno ristrettamente, ma per
delettatione, ò per utile’]. Libro
Settimo (pp. 552-574) [Si affrontano
essenzialmente tre argomenti: i sinonimi e il loro uso (tre sono le ragioni
per usarli: l'intento di variare, di produrre ‘vaghezza’ e di aggiungere
forza ed efficacia al discorso); gli epiteti (o aggettivi. Essi si
aggiungono per ‘necessità d'espressione’ o ‘per vaghezza’); le figure (che
possono essere universali o proprie di ciascuna lingua; sono per lo più
deviazioni dalla norma, fatte non a caso ma ‘per sommo studio’). Per
l'italiano sono soprattutto figure di costruzione; gli esempi sono tratti
dalle opere di Boccaccio e Petrarca]
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