Prose della volgar lingua

1525 1548 1549 1554 1562 1586 1824

 


 

Autore

Bembo, Pietro

Titolo

Prose della volgar lingua

Stampe

Prima edizione:

1525: Prose di M. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de Medici che poi è stato creato a sommo pontefice et detto papa Clemente Settimo divise in tre libri. In Vinegia, per Giovan Tacuino.

 

Biblioteca dell'Accademia della Crusca - Firenze (3 copie)

Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Medicea Laurenziana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

Biblioteca Riccardiana - Firenze

Biblioteca di Lettere e Filosofia - Firenze

 

Edizioni e ristampe:

1538 (seconda edizione): Prose. In Vinegia, per Francesco Marcolini.

 

*Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

 

1539: Prose

 

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

 

1540: Prose. In Venetia, [Comin da Trino]

 

Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

Biblioteca Riccardiana - Firenze

 

1540 (seconda edizione): Prose. [Venezia, Comin da Trino].

 

1544 (seconda edizione): Prose. In Vinegia, per Comin da Trino.

 

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

 

1546 (seconda edizione): Prose. In Vinegia, [Bartolomeo Imperatore].

 

1547 (seconda edizione): Prose. In Vinegia, [Francesco Bindoni il vecchio e Maffeo Pasini]

 

Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

 

1548 (terza edizione): Le prose. In Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino (ad istantia di Carlo Gualteruzzi, 1549).

 

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

Biblioteca dell'Accademia della Crusca - Firenze

Biblioteca Riccardiana - Firenze

 

1548 (terza edizione): Le prose. In Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino.

 

1549: Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua ... divise in tre libri. In Firenze, per Lorenzo Torrentino, ad istantia di Carlo Gualteruzzi.

 

Biblioteca dell' Accademia della Crusca - Firenze

Biblioteca del Seminario arcivescovile maggiore - Firenze

Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

Biblioteca di Lettere e Filosofia - Firenze

Biblioteca Moreniana - Firenze

 

1552: Le prose. In Vinegia, appresso Gualtero Scoto.

 

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

Biblioteca di Lettere e Filosofia - Firenze

 

1554: Le prose. In Vinegia, per Comin da Trino.

 

Biblioteca dell'Accademia della Crusca - Firenze

Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

 

1556: Le prose nelle quali si ragiona della volgar lingua... Divise in tre libri et reviste...da Lodovico Dolce. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari.

 

Biblioteca Medicea Laurenziana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

 

1557: Le prose di m. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua... divise in tre libri et reviste... da Lodovico Dolce: con la tavola. In Venetia, al segno del Pozzo, appresso Andrea Arrivabene.

 

Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

Biblioteca Riccardiana - Firenze

 

[1557]: Le prose, overo grammatica della lingua volgare... divise in tre libri & revisti... da Lodovico Dolce. In Vinegia, appresso Giovanni de' Rossi.

 

1561: Le prose nelle quali si ragiona della volgare lingua... divise in tre libri... e reviste... da Lodovico Dolce. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari.

 

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

 

1562:  Le prose di m. Pietro Bembo, nelle quali si ragiona della volgar lingua, scritte al cardinal de' Medici, che poi fu creato a sommo pontefice, et detto papa Clemente VII. Divise in tre libri, e di nuovo aggiunte le postille nel margine, e rivedute con somma diligenza da m. Francesco Sansovino. Con la tavola. In Venetia, [appresso Francesco Rampazetto].

 

Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

Biblioteca di Lettere e Filosofia - Firenze

Biblioteca Boffito Collegio Alla Querce - Firenze

 

1562: In Le osservationi della lingua volgare di diversi huomini illustri, cioe del Bembo del Gabriello del Fortunio dell’Acarisio et di altri scrittori [a cura di Francesco Sansovino]. In Venetia, appresso Francesco Sansovino.

 

Biblioteca dell’Accademia della Crusca - Firenze (2 copie)

Biblioteca di Lettere e filosofia - Firenze

 

 

1563: Le prose di m. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua... Divise in tre libri, e di nuovo aggionte le postille nel margine, e reviste con somma diligenza da m. Lodovico Dolce. In Venetia, appresso Girolamo Scotto.

 

 1575: Le prose nelle quali si ragiona della volgar lingua... divise in tre libri. In Vinegia, appresso Iacomo Vidali.

 

Biblioteca Riccardiana - Firenze

 

1586: Le prose di m. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua... Divise in tre libri... & reviste secondo la buona correttione di Lodovico Dolce. In Venetia, appresso Nicolò Moretti.

 

Biblioteca dell'Accademia della Crusca - Firenze

Biblioteca Marucelliana - Firenze

Biblioteca Medicea Laurenziana - Firenze

Biblioteca Nazionale Centrale - Firenze

 

1588: Le prose di M. Pietro Bembo. Nelle quali si ragiona della volgar lingua, scritte al cardinale de Medici, che poi fu creato sommo pontefice, & detto papa Clemente VII. In Venetia, appresso i Gioliti.

 

1824: Le prose del cardinale Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua divise in tre libri con la vita dell'autore scritta dal conte Giammaria Mazzucchelli. Milano, Silvestri.

 

Biblioteca dell'Accademia della Crusca - Firenze

Edizioni  esaminate

1525 (prima edizione): in Vinegia, per Giovan Tacuino.

1548 (terza edizione): in Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino (ad istantia di Carlo Gualteruzzi, 1549).

1549: in Firenze, per Lorenzo Torrentino (ad istantia di Carlo Gualteruzzi).

1554: in Vinegia, per Comin da Trino.

1562: in Le osservationi della lingua volgare di diversi huomini illustri,  cioe del Bembo del Gabriello del Fortunio dell'Acarisio et di altri scrittori [a cura di Francesco Sansovino], in Venetia, appresso Francesco Sansovino.

1586: in Venetia, appresso Nicolò Moretti.

1824: Milano, Silvestri.

Sommario e contenuto dell’opera

All'illustriss. et eccellentiss. sig. il sig. Cosimo de Medici Duca di Firenze. (Edizioni del 1548, 1549, 1586 e 1824. La numerazione delle pagine, ove indicata, si riferisce all’ed. 1525) [Dedicatoria scritta da Benedetto Varchi. Varchi sottolinea i meriti della casata dei Medici per i progressi fatti nelle arti e discipline ‘che a tutte l'altre di gran lunga sopra stanno’: le lettere e l'arte della guerra. Lorenzo il Vecchio, per quanto riguarda le lettere, fu il primo ad apprezzare e ad utilizzare nei suoi scritti la lingua fiorentina e, di certo se ne avesse avuto il tempo, l'avrebbe riportata all'antica purezza. Di ciò si occupò, invece, Pietro Bembo, forse spinto dall'esempio di Lorenzo il Vecchio o incoraggiato da Lorenzo il Magnifico. Egli, nel dialogo intitolato Le prose della volgar lingua, con perizia e ingegno trattò minuziosamente della lingua di Firenze. I fiorentini  dovrebbero essergli grati per la sua opera di ripristino dell'antico splendore della lingua. Dopo la prima stesura, poiché a scrivere in lingua fiorentina non erano più solo i toscani, ma pure gli italiani e addirittura alcuni stranieri, il Bembo si risolse a rivedere e ad ampliare il volume delle Prose, ma morì prima di vederlo ripubblicato. Il figlio Torquato e gli esecutori delle sue ultime volontà (Girolamo Quirini e Carlo Gualteruzzi) hanno permesso la riedizione delle Prose, affidata al Varchi];

Di Messer Pietro Bembo a Monsignore Messer Giulio Cardinale de Medici della volgar lingua  primo libro (pp. I-XIX) [Esporre le regole delle diverse lingue è sicuramente di grande utilità per l'apprendimento di esse e dunque per la comunicazione fra uomini appartenenti a popoli diversi. In ogni provincia d'Italia si parla diversamente e dalle varie favelle non è facile trarre l'esempio di lingua con il quale esprimersi nello scrivere, che è ‘parlare pensatamente’. L'autore riporterà nell'opera il ragionamento sulla lingua volgare svoltosi a Venezia nel 1502 tra suo fratello Carlo, padrone di casa,  Giuliano de' Medici, Federico Fregoso ed Ercole Strozzi. Nelle Prose si parlerà principalmente della città di Firenze e dei suoi scrittori, ‘dalla quale et da quali hanno le leggi della lingua, che si cerca, et principio et accrescimento et perfettione havuta’. Il dialogo è di fatto costituito dalle argomentazioni portate da tre sostenitori del volgare (Carlo Bembo, portavoce dell'autore; Giuliano de' Medici, fiorentino e ‘fiorentinista’; Federico Fregoso, profondo conoscitore della lingua poetica provenzale) per convincere il latinista Ercole Strozzi dell'opportunità e della dignità dello scrivere in volgare. La lingua latina è la lingua che pochi imparano nelle scuole mentre la lingua volgare, non solo è vicina ai più, ma ‘natia’ e ‘propria’. Gli uomini, nello scrivere, non devono usare le ‘favelle’ ritenute più ‘degne et honorate’ in assoluto, come la latina, ma ‘le proprie loro’, quando esse abbiano ‘dignità e grandezza’. Cino da Pistoia, Dante, Petrarca e Boccaccio hanno scritto in volgare, sia in prosa che in poesia, e hanno dato grande lustro alla lingua toscana.

Viene confutata la tesi secondo la quale la lingua volgare sia stata anche lingua dei Romani: non ci sono tracce dell'uso del volgare ai tempi dei Romani. Delle origini della lingua volgare parla Federigo Fregoso. Egli sostiene che non è possibile stabilire la data precisa della sua nascita, dal momento che essa è nata dalla corruzione e dalla contaminazione della lingua latina ad opera delle lingue dei Barbari che invasero l'Italia e la dominarono per alcuni secoli. La lingua poetica  è essenzialmente di derivazione provenzale. Si è anche parlato di un'influenza dei Siciliani, ma dei loro scritti  sono rimaste poche cose e di poco conto.  Per quanto riguarda i Provenzali, invece, risulta evidente che da essi ‘hanno apparate et tolte molte cose gli antichi Thoscani’. Invitato da Giuliano de' Medici, allora, Fregoso parla diffusamente dell'influenza che la lingua poetica provenzale ha esercitato su quella toscana; da essa sono stati mutuati diversi tipi di canzoni e rime, molte parole e costruzioni, figure retoriche, e gli stessi argomenti del verseggiare.

La conversazione cade poi sulla scelta, fra i tanti volgari italiani,  del volgare più adatto per la scrittura. Carlo  Bembo riferisce del libro del Calmeta nel quale si afferma che la lingua da adottare è quella ‘cortigiana’, la  lingua che si parla alla corte di Roma (‘lingua Cortigiana esso vuole che sia quella, che s'usa in Roma, non mica da Romani huomini, ma da quelli della Corte, che in Roma fanno dimora’) e si discute del fatto se essa possa veramente dirsi lingua ‘percio che non si puo dire che sia veramente lingua alcuna favella, che non ha scrittore’. Secondo Carlo Bembo, Fregoso e Giuliano de' Medici è la lingua fiorentina (o toscana, il termine viene usato indifferentemente), la lingua da adottare nelle scritture, perché ha voci con ‘miglior suono’, eleganti modi di dire ed è stata  ‘da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata’ e perciò risulta ‘regolata et gentile’. Se sul volgare da eleggere a lingua nazionale tutti sono concordi, vi sono tuttavia delle differenze per quanto riguarda il modello concreto di lingua fiorentina al quale fare riferimento. L'essere fiorentini, come sostiene Carlo Bembo, non significa che si abbia conoscenza perfetta della buona lingua: ‘et viemmi talhora in openione di credere, che l'essere a questi tempi nato Fiorentino, a ben volere Fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio’, perché dai Fiorentini può essere trascurato l'esempio dei buoni scrittori. Per l'adozione del fiorentino ‘vivo’ come modello di lingua si dichiara invece Giuliano de' Medici, che sostiene che non tutti gli antichi sono da imitare (si pensi a Cavalcanti, Farinata e Guittone) e che volendo imitare a tutti i costi gli antichi scrittori si potrebbe dire ‘che noi scrivere volessimo a morti piu che a vivi’. Fa chiarezza su questo punto la replica di Carlo Bembo: la lingua delle scritture deve accostarsi a quella del popolo solo se non perde di gravità e grandezza, perché non è il giudizio dei molti che conta, ma quello dei dotti; gli antichi sono da imitare, solo quando ‘migliore et piu lodato è il parlare nelle scritture de passati huomini; che quello che è o in bocca o nelle scritture de vivi’. La lingua di Petrarca e Boccaccio è senz'altro superiore a quella fiorentina del Cinquecento, è il modello al quale ispirarsi nello scrivere in volgare. Mescolare la lingua del Trecento con le buone voci del Cinquecento, come proporrebbe lo Strozzi, non servirebbe a creare una lingua migliore: ‘che il pane del grano non si fa migliore a mescolarvi la saggina’];

 

Di Messer Pietro Bembo a Monsignore Messer Giulio Cardinale de Medici della volgar lingua secondo libro (pp. XX-XLI) [La lingua volgare è succeduta alla lingua latina e ha eccellenti poeti e prosatori, da Pier delle Vigne fino a Petrarca e Boccaccio, i quali ultimi non sono stati mai né superati né eguagliati.  Da una domanda di Ercole Strozzi, che chiede quale sia il criterio per distinguere ‘le buone Volgari scritture dalle non buone’, prende avvio la trattazione vera e propria del secondo libro delle Prose. Un volgare che abbia dignità di buona lingua deve avere degli scrittori, così come è accaduto per il toscano. I buoni scrittori, poi, si riconoscono per l'osservanza di alcuni criteri generali attinenti allo scrivere: la materia  e la forma. Per quanto riguarda la forma, che è poi la scrittura, due sono gli aspetti da considerare: la scelta dei vocaboli e la loro disposizione. I vocaboli devono essere adatti all'argomento trattato e comunque non devono mai essere rozzi e volgari, perché ‘da tacere è quel tanto, che sporre non si può acconciamente’. Molta più accortezza nella scelta delle voci usò Petrarca rispetto a Dante, che talvolta peccò di eccessivo realismo. Per quanto riguarda la disposizione, essa coinvolge l'ordine, la flessione morfologica e i fenomeni di modificazione fonetica delle parole: anche da ciò dipende la ‘vaghezza’ della lingua.

Due sono le qualità che caratterizzano il bello scrivere: ‘la  Gravità et la Piacevolezza’, che a loro volta coinvolgono il suono, il numero e la variazione. Il suono è ‘quel concento et quella harmonia; che nelle prose dal componimento si genera delle voci; nel verso oltre a cio dal componimento etiandio delle rime’. Segue una lunga e dettagliata descrizione dei valori estetici dei suoni che corrispondono alle lettere della lingua volgare, che danno qualità e forma ai vocaboli, e poi una descrizione dei diversi tipi di rima. Le rime possono essere regolate, libere e mescolate; lontane, vicine e vicinissime. Vengono riportate come esempi alcune canzoni del Petrarca.

Il numero ‘altro non è, che il tempo; che alle sillabe si da o lungo, o brieve, hora per opera delle lettere, che fanno le sillabe; hora per cagione de gli accenti, che si danno alle parole: et tale volta et per l'un conto et per l'altro’.

La ‘variatione’, che serve a ‘fuggire la satieta’, consiste nell'alternanza delle voci, del suono, delle rime.

Al suono, al numero e alla variazione, nel loro effetto di poter rendere piacevole e grave la scrittura, si affiancano il ‘decoro’ (la misura nell'adoperare gli accorgimenti che costituiscono  la buona scrittura) e la ‘persuasione’ (‘quella occulta virtu; che in ogni voce dimorando commuove altrui ad assentire a cio che egli legge,  procacciata piu tosto dal giudicio dello scrittore, che dall'artificio de maestri’).

In base, dunque, all'uso di suono, numero, variazione, decoro e persuasione, e alla piacevolezza e gravità che con essi si possono raggiungere, è possibile giudicare i buoni scrittori. E appunto in base a tutto ciò sono considerati i migliori, ognuno nel suo genere, Petrarca e Boccaccio. Dante, al contrario, volendo apparire grande conoscitore delle sette arti e della filosofia e maestro di ‘tutte le Christiane cose’ ha finito con l'essere ‘men sommo e meno perfetto’ nella poesia.

Per poter, però, essere in grado di scrivere nella lingua volgare è necessario conoscere le regole grammaticali.  Di esse si ragionerà nella terza giornata]; 

Di Messer Pietro Bembo a Monsignore Messer Giulio Cardinale de Medici della volgar lingua terzo libro (pp. XLII-XCIII) [Lo scrivere ‘è opera cosi leggiadra et cosi gentile; che niuna arte puo bella et chiara compiutamente essere senza essa’. È importante che si apprenda a scrivere anche nella lingua volgare, che può dare più ‘agevolezza nello scrivere’. Affinché coloro che intendono scrivere abbiano presente ‘tutta la strada, per la quale a caminare hanno, che per adietro non s'è veduta’, l'autore riporterà la conversazione avvenuta il terzo giorno in casa di suo fratello, la quale ha per argomento le regole della lingua volgare. I nomi terminano sempre per vocale. Due sono i generi: ‘del maschio’ e ‘della femmina’; non esiste il genere neutro, ma ambedue i generi sono a volte usati ‘neutramente’. Le voci maschili del ‘numero del meno’ (il singolare)  terminano in ‘-i’ e in ‘-o’, oppure, più raramente, in ‘-e’ (i nomi che in latino crescono di una sillaba nel genitivo rispetto al nominativo come ‘amore’), in ‘-a’  e  in ‘-u’. Tutti i nomi maschili plurali terminano in ‘-i’ (fanno eccezione le parole ‘non intere’, rese tali dalla licenza dei poeti, ad es. ‘anima'’ per ‘animali’). Tranne rare eccezioni, tutti i nomi femminili terminanti in ‘-a’ al singolare terminano in ‘-e’ al plurale, mentre quelle che terminano in ‘-e’ al singolare hanno desinenza in ‘-i’ al plurale. Non sono vere e proprie eccezioni le parole tronche (come ‘città’), o quelle con la forma doppia (‘fronde’/’fronda’- ‘frondi’/’fronde’), mentre costituiscono eccezione i nomi che provengono da altre lingue. Le voci neutre in latino sono rese nella lingua volgare dal nome e dall'articolo maschili, nel singolare, dall'articolo e dalla terminazione in ‘-a’ del femminile, nel plurale. È attestata anche una forma plurale con desinenza ‘-ora’. I nomi di cui è stata illustrata la flessione sono nomi che ‘soli star possono, e reggonsi da sè, senza altro’; ci sono poi nomi (gli aggettivi) che si accompagnano sempre ad altri nomi (‘con questi si pongono, nè stato hanno altramente’) ed hanno le seguenti desinenze: ‘-o’ ed ‘e’ al maschile singolare e ‘-i’ al plurale; ‘-a’ ed ‘-e’ al femminile singolare, ‘-i’ al plurale.

Si passa ad illustrare poi gli usi di articoli e ‘segni di casi’. L'articolo che precede i nomi maschili che iniziano per consonante è ‘il’, quello che precede i nomi che iniziano per vocale è ‘lo’, che si apostrofa; l'articolo femminile singolare è ‘la’, che può perdere la vocale se precede nomi che iniziano per vocale. A volte viene omessa la vocale del nome (‘lo 'nganno’; ‘la 'nvidia’). Per il maschile plurale gli articoli sono ‘i’, ‘li’ e ‘gli’ dinanzi a vocale e a parole che iniziano con ‘s-’ seguita da altra consonante, casi per i quali è richiesto l'uso di ‘lo’ nel singolare. Articolo femminile plurale è ‘le’. Nei segni di caso l'articolo a volte scompare. ‘Di’ diventa sempre ‘de’ quando è seguito dagli articoli. Non mancano esempi in cui il segno di caso è omesso (come in ‘per lo colui consiglio’).

Successivo argomento della trattazione sono le ‘voci, che in vece di nomi si pongono’ (i pronomi). Vengono descritti gli usi dei pronomi personali di prima e seconda persona, sia tonici che atoni, nei diversi casi. I pronomi personali maschili di terza persona sono ‘elli’, (e le varianti ‘ei, ‘e'‘), ‘ello’ nel primo caso; ‘lui’ negli altri casi (modello dell'uso è il Petrarca). ‘Lui‘ a volte sostituisce ‘colui’ nel primo caso, quando segue ‘come’. ‘Elli’ (talvolta ‘ei’) si usa in poesia per il primo caso del maschile plurale; nella prosa si adopera ‘essi’ (talvolta ‘ellino’) e ‘loro’ è il pronome usato in tutti gli altri casi. In tempi più recenti è frequente l'uso di ‘egli’ ed ‘eglino’. ‘Ella’ ed ‘elle’ (per il primo caso al singolare) e ‘lei’ e ‘loro’ (per i casi obliqui al plurale) sono i pronomi femminili di terza persona. In alcuni casi ‘lei’ è usato al posto di ‘colei’. In poesia ‘ella’, ‘elle’, ed ‘elli’ (al plurale) possono essere oltre che nel primo caso anche nei casi ‘dal terzo in fuori’. La forma ‘elleno’, come la parallela forma ‘eglino’, è usata ‘in bocca del popolo’ più che nelle scritture. ‘Egli’ non sempre è usato in sostituzione di un nome, come nell'esempio ‘egli era in questo castello una donna vedova’; in  casi come questo non è facile stabilire ‘egli’ che parte del discorso sia, ma è certo che si accompagna sempre al verbo. Viene poi affrontata la questione delle forme pronominali proclitiche ed enclitiche e vengono descritti alcuni fenomeni ad esse correlati (raddoppiamenti, spostamenti di accenti, ecc.). Altri pronomi di cui viene descritto l'uso sono: ‘quelli’ (‘quei’ nel verso) e ‘questi’; ‘colui’, ‘costui’ /’costei’, ‘cotesto’; ‘altri’, ‘altrui’, ‘alcuno’, ‘veruno’, ‘niuno’, ‘nullo’, ‘nessuno’; ‘qualche’, ‘il quale’, ‘che’, ‘chi’ (nel primo caso), ‘cui’ (negli altri casi); ‘ciascuno’ (‘ciascheduno’, ‘catuno’), ‘chiunque’  (‘cheunque’) e ‘qualunque’; ‘tale’ (o ‘cotale’), ‘quale’.

Quattro sono le ‘maniere’ (coniugazioni) del verbo, rappresentate dai tipi ‘amare’, ‘valere’, ‘leggere’, ‘sentire’. Vengono descritte tutte le possibili varianti delle persone del presente. Si passa poi a trattare delle voci ‘che pendentemente si dicono’ (l'imperfetto) e delle voci del passato; fra le altre osservazioni, quella relativa alla prima persona singolare dell'imperfetto, che deve terminare in ‘-a’, e quella relativa alla prima persona singolare del passato remoto, che si può ricavare dalla forma del participio passato. Vengono poi esaminati altri tempi e tracciate fra loro alcune differenze: esiste un passato ‘pendente nel tempo’ (trapassato prossimo),  ‘di lungo tempo’ (passato remoto), ‘di poco’ (passato prossimo) e di un'altra specie (trapassato remoto).  Non sono trascurate le voci del  ‘tempo che è a venire’ (il futuro). Seguono ‘le voci che quando altri comanda, e ordina checchè sia, si dicono per colui; le quali non sono altre che due in tutti i verbi’ (l'imperativo). L'infinito è detto ‘voce senza termine’, e ha anche una forma composta. Benché gran parte della trattazione verbale sia incentrata sul modo verbale con il quale ‘senza condizione si ragiona’ (l'indicativo), non vengono trascurate voci verbali che fanno capo ad altri modi:  quelle del congiuntivo presente e quelle  che si usano quando si ragiona ‘condizionalmente’ (condizionale e congiuntivo imperfetto). Altra ‘condizionata voce del tempo, che è a venire’ è ciò che ‘nel futuro il passato dimostra’ (il futuro anteriore). Viene descritto, ma non definito, il gerundio. La lingua volgare non ha una coniugazione passiva, ma ha una possibilità di esprimere un significato passivo con le voci del verbo ‘essere’ e le voci del passato (il participio). Vengono illustrate anche coniugazioni di verbi irregolari. La trattazione prosegue con la descrizione delle forme e degli usi di quei modi verbali che del nome e del verbo ‘col loro sentimento partecipano, e nondimeno separata forma hanno da ciascun di questi’: il participio presente e passato; di quest'ultimo in particolare, sono affrontati i fenomeni relativi all'accordo.

Dopo il verbo vengono descritte ‘la particella del parlare, che a' verbi si dà in più maniere di voci, quivi, lì, poi, dinanzi, e simili’ e le ‘altre particelle ancora che si dicono ragionando, e comechè sia’. Vengono innanzitutto esaminati gli avverbi di luogo e a seguire quelli di tempo e modo. La trattazione grammaticale si conclude con la descrizione dell'uso di alcune congiunzioni, preposizioni, esclamazioni e locuzioni di varia natura];

Errori da gl'impressori per inavertenza fatti (nelle edizioni del 1525; 1548 e 1549: Errori del volume delle Prose); Tavola di tutta la contenenza del presente volume secondo l'ordine dell' alphabeto. (nelle edizioni del 1548, 1549, 1554, 1562; 1586: Tavola di tutta la contenenza del presente volume, secondo l'ordine dell'alfabeto; 1824: Indice delle materie contenute in quest'opera); Indice analitico; Indice (1824: Indice generale).

Apporto generale dell’opera

Obiettivo dell’autore e tipo di grammatica: Una lettura delle Prose come opera composita, costituita da tre trattati, storico, retorico e grammaticale, ha fatto sì che trattazione grammaticale vera e propria sia stato considerato solamente il terzo libro (Trabalza 1908: 76), destinato a soddisfare la richiesta di lingua unica, stabile e regolata da parte di scriventi non toscani. In realtà, le Prose ‘non sono grammatica solo nel terzo libro, ma anche nei primi due, nonostante la meno evidente sistematicità della trattazione. Grammatica completa della lingua, cioè regolazione sia delle strutture fonetiche, morfologiche e sintattiche, che degli stilemi’ (Nencioni 1989: 120). Da Bembo in poi la stilistica entra a far parte della grammatica italiana (cfr. Skytte 1990: 272). La forma del dialogo e la lingua adoperata, unanimemente riconosciuta come esempio indiscutibile di bello stile  (‘uno dei più perfetti e ammirati modelli della prosa vagheggiata in quell'età’, Trabalza 1908: 77; ed ‘elaborato e personalissimo stile’, Nencioni 1989: 120) ne facevano sicuramente un'opera destinata a un pubblico colto, tanto che già Lombardelli nei suoi Fonti toscani (1586:50) riconosceva che le Prose ‘richiedono leggitore introdotto bene, attento, assentito e valoroso, che ne sappia cavar que' tesori che vi son quasimente affogati nel dialogo ed in una maniera di trattarli anzi stravagante che no’. Perché l'opera giungesse ad un pubblico un po' più vasto di scriventi si dovettero aspettare le edizioni curate da altri dopo la morte dell'autore, che subirono un processo di ‘manualizzazione’, come si vede per esempio dall'introduzione di un indice analitico e dalla riduzione del formato (Tavoni 1992: 1071-72).

 

Interessi specifici: La trattazione grammaticale non è un'esposizione sistematica. Ogni regola, di cui si danno anche le eventuali eccezioni, è inframmezzata da riflessioni che riguardano altre nozioni della grammatica; la descrizione ha il sopravvento sulla classificazione; la norma non è sempre rigida, consente forme alternative, se il risultato ultimo è la ‘piacevolezza’ della lingua. Le parti del discorso non vengono ordinatamente elencate né definite: la descrizione prende avvio dando per scontati il numero e la natura delle classi di parole. Ricorrente è la distinzione fra l'uso della prosa e quello della poesia e talvolta si arriva a distinguere fra l'uso dei poeti e quello dei migliori poeti. Scarso è l'interesse per l'ortografia.

-          Innovazioni terminologiche: Bembo evita accuratamente i termini latini, tecnici, le questioni terminologiche; spesso tace il nome degli elementi e dei fenomeni descritti, ma di norma  ricorre a termini della lingua comune, a locuzioni o perifrasi. Nelle successive trattazioni grammaticali cinquecentesche, anche quelle ‘bembiane’, della terminologia delle Prose, solo alcuni termini (ad esempio ‘maniera’ per indicare la coniugazione verbale) ed alcune espressioni (ad esempio ‘numero del meno/ del più’; ‘del maschio/della femmina’, per singolare/plurale e maschile/femminile) saranno adottati.

 

-          Corpus di esempi: Dante, Petrarca e Boccaccio, citati già dai primi esempi riportati nel terzo libro, sono in assoluto gli autori più citati. Di molti altri poeti e scrittori del Duecento e del Trecento, tuttavia, si fa il nome e vengono riportati esempi; fra questi: Villani, Guinizzelli, Crescenzio, Bonagiunta, Cino, Guido Cavalcanti, Dino Frescobaldi. Di ogni esempio viene indicato l'autore ma non il titolo dell'opera da cui è tratto. Nella scelta dell'esemplificazione Bembo è probabilmente debitore nei confronti del Fortunio, con il quale condivide buona parte degli esempi, ma in ogni caso, ‘col Fortunio e soprattutto col Bembo, inizia il lungo elenco di esempi “vaganti” che si tramandano di grammatica in grammatica fino ai giorni nostri’ (Skytte 1990: 273).

 

Interesse generale:

-          Influenza subita: Bembo produce schemi grammaticali, partizioni e terminologia che non sembrano fare riferimento a una tradizione grammaticale precedente. Di fatto egli propone una tradizione di studi grammaticali della lingua volgare che si ispira a quella latina, ma che sia indipendente rispetto ad essa. Il termine di confronto più diretto, se pur implicito, delle Prose non può che essere costituito dalla grammatica del Fortunio.

-          Influenza esercitata: Per quanto citate, tranne qualche rarissima eccezione, in tutte le grammatiche cinquecentesche (da Gabriele a Ruscelli) e spessissimo in tutta la trattatistica grammaticale italiana dei secoli successivi (da Buommattei a Corticelli), le Prose non hanno costituito un vero e proprio modello per la struttura, la teoria grammaticale, la terminologia, la classificazione delle parti del discorso. Bembo e la sua opera hanno proposto, descritto e regolato, fornito, con gli esempi e lo stile, un modello di lingua che è poi divenuto il modello della lingua  italiana, e perciò sono inevitabilmente divenuti uno dei principali punti di riferimento per la conoscenza delle sue regole.

Nota bibliografica

Lombardelli 1598: 50; Marti 1955; Vitale 1955; Dionisotti 1960; Trabalza 1908: 75-82; Dionisotti 1967c; Castellani Pollidori 1976; Pozzi 1978; Quondam 1978; Vitale 1984: 50-56; Bongrani 1982; Alfieri 1984: 205-280; Mazzacurati 1984; Sabbatino 1986; Padley 1988: ad indicem; Nencioni 1989; Skytte 1990: 272-273; Tavoni 1992; Patota 1993: 104-111; Patota 1997; Bonomi 1998c: 20-28; Lazard 1998; Marazzini 1999; Poggiogalli 1999: ad indicem; Prose 2000; Vela 2001.